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Di seguito vengono pubblicate le domande più frequenti.

R. La maggior parte delle GCA può andare incontro a complicanze neurologiche che determinano danno cerebrale secondario. Tra queste vi è l’aumento eccessivo della pressione intracranica a seguito di edema e rigonfiamento cerebrale o raccolta ematica intracranica, con valori che risultano patologici se superano i 20 mm Hg e sono incompatibili con la sopravvivenza se superiori a 50 mm Hg. L’idrocefalo secondario è una complicanza più tardiva e consiste in un’alterazione della dinamica liquorale che si traduce nell’aumento patologico di una o più cavità ventricolari. Si tratta di una complicanza con bassa probabilità di insorgenza, intorno al 5% nei TCE, ma meritevole di attenzione per la sua potenziale influenza negativa sui processi di recupero funzionale del paziente, tanto sul versante neuromotorio quanto sul versante neurocognitivo.

R. Il coma è la condizione clinica caratterizzata da assenza di apertura degli occhi, mancanza di contenuti dimostrabili di coscienza e di produzione verbale comprensibile, mentre lo stato vegetativo è quella condizione caratterizzata da assenza di contenuti dimostrabili di coscienza di sé e dell’ambiente circostante con conservazione delle funzioni autonomiche con apertura degli occhi e presenza di ritmo sonno-veglia.

Mio figlio ha avuto un grave trauma cranico quasi quattro mesi fa ed è stato in coma a lungo. All'ultimo colloquio di qualche girono fa i medici mi hanno detto che è un poco migliorato: ora non è più in stato vegetativo ma in stato di minima coscienza. Anch'io mi accorgo che qualcosa è cambiato: gira la testa e mi guarda se entro nella stanza e lo chiamo; quando gli parlo sembra emozionarsi; qualche volta mi è sembrato che cercasse di muovere le labbra per dire qualcosa. Mi può spiegare se questa nuova diagnosi e questi segni di contatto sono garanzia di buona guarigione?

Il termine “Stato di minima coscienza” è stato coniato dagli autori nordamericani qualche anno fa per identificare una categoria di pazienti che non hanno ancora recuperato appieno la capacità di eseguire ordini semplici in modo costante e di dimostrare in modo certo di avere solida consapevolezza di sé e del mondo circostante, ma che sono comunque in grado di mostrare capacità di elaborare risposte semplici ma differenziate a stimoli esterni. Spesso in modo ritardato, incostante e facilmente esauribile per comparsa precoce di fatica attentiva, questi pazienti riescono, ad esempio a seguire con lo sguardo una persona che entra nel loro raggio di azione, oppure, se non hanno paralisi completa degli arti, possono mettersi a manipolare un oggetto, dimostrando di avere una pur vaga consapevolezza della sua forma e peso; come nel caso di suo figlio tendono ad avere risposte più pronte quando interagiscono con persone note e significative sul piano affettivo, piuttosto che con gli operatori del team ospedaliero. I dati di letteratura dimostrano che il passaggio a questa condizione costituisce un elemento prognostico potenzialmente positivo: ovvero i pazienti in questa condizione hanno maggiori probabilità di avere un pieno recupero della coscienza rispetto a pazienti che persistono in stato vegetativo. Occorre però aver ben presente che le stime di cui disponiamo hanno un valore puramente statistico e non possono quindi predire cosa di preciso accadrà al singolo paziente che abbiamo davanti a noi. In linea generale, sarà molto importante osservare con attenzione cosa sarà in grado di fare suo figlio nelle prossime settimane/mesi, per capire se la situazione in cui si trova ora costituisce solo una tappa di passaggio verso una progressiva ripesa piena della coscienza o se purtroppo ci troviamo di fronte ad una condizione che tende a stabilizzarsi con ridotta capacità di interazione ambientale. Per quanto abbiamo accennato sopra, sulla capacità maggiore di contatto con le persone significative, sarà fondamentale il suo ruolo di osservatore privilegiato, che si confronterà con i tecnici del team rispetto alla reali capacità di suo figlio.

R. L’insieme dei disturbi comportamentali ha una forte attinenza con la sfera delle alterazioni della personalità e contempla una vasta gamma di espressioni patologiche, in sintesi raggruppabili come comportamenti patologici per difetto (ad esempio apatia, inerzia, ottundimento affettivo, eccessiva affaticabilità, depressione dell’umore), per eccesso (irritabilità, agitazione, ansia, pararanoia, bulimia, logorrea), inadeguati per condizioni e tempi (disinibizione, disforia, disturbi della sfera sessuale). La menomazione cognitiva e comportamentale costituisce una delle variabili critiche delle GCA, perché è in grado di condizionare tutta l’impostazione del progetto riabilitativo e la stessa prognosi globale di recupero funzionale dei pazienti. La valutazione si avvale di strumenti diversi, specifici per le diverse fasi evolutive in cui si trova il soggetto con GCA. Lungo tutto il percorso di malattia il soggetto può essere inquadrato mediante la scala Levels of Cognitive Functioning (LCF), una scala nominale che descrive 8 diverse fasi comportamentali tipiche di questi soggetti dal coma al buon recupero. Quando un malato raggiunge la classe 5 (confuso-inappropriato) si può iniziare a valutare l’entità di amnesia post-traumatica e/o disorientamento temporo-spaziale, ricorrendo a questionari prospettici, quali la Galveston Orientation and Amnesia Test (GOAT). Solo quando è stabilmente superato il periodo della amnesia post-traumatica ha senso sottoporre il paziente a prove psicometriche formali, che devono essere scelte, somministrate e interpretate da neuropsicologo esperto, in grado di trarre una sintesi significativa dalla storia del paziente, dal colloquio con il care-giver, dall’analisi del comportamento clinico del paziente e dalla performance nei test.

R. Non ci sono, allo stato attuale prove scientifiche né a favore dell’utilità di somministrare qualunque forma di stimolazione sensoriale ad un paziente in coma o in stato vegetativo profondo (SV) né a dimostrazione di una loro nocività.
In questa condizione può quindi prevalere un principio di “economia” e di buon senso, per cui si evita di fare tutto quanto non si sia dimostrato risultare di qualche utilità.
Il discorso diviene più complesso quando ci si trovi di fronte ad un paziente che inizia ad avere i primi segni, incostanti e molto esauribili nel tempo, di recupero di contatto. In questo contesto diventano utili le conoscenze scientifiche nell’ambito della patologia dei processi attentivi. Un paziente in fase di ripresa di contatto è un soggetto con una fragilità enorme di risorse attentive: riesce a fatica a focalizzare la propria attenzione su una fonte di stimolo (un suono, una voce, una persona in movimento), fa fatica a isolare lo stimolo dai rumori, dai suoni, dalle stimolazioni tutte dell’ambiente che lo circonda ed è totalmente distraibile da stimoli non significativi; esaurisce la capacità di prestare attenzione allo stesso tipo di stimolazione dopo pochi secondi o minuti; risente in modo estremamente negativo di piccole fonti di disturbo anche fisico ( sensazione di dolore ad un arto o per qualche tubo artificiale, es. cannula tracheale, peg, sondino naso-gastrico, con cui deve essere curato, dolore viscerale come la vescica piena, fame e sete).
In questa situazione clinica appare significativo e “curativo” ai fini di un miglior recupero di contatto con l’ambiente il fatto di cercare di creare intorno al paziente un ambiente tranquillo, abbastanza silenzioso, possibilmente riducendo al minimo le stimolazioni potenziali fonti di fastidio/dolore. In tale contesto può allora risultare utile proporre delle stimolazioni molto controllate e dosate, nella quantità ( brevi stimolazioni e lunghe pause) nella qualità, scegliendo sia il contatto fisico che la voce come strumenti di relazione con il paziente. Come tutte le vere relazioni occorre che ci sia una reale interazione, il cui ruolo attivo è purtroppo delegato per la più parte al familiare e/o all’operatore: a loro il compito di verificare la disponibilità del paziente al contatto e la comparsa di segni di fatica/rifiuto che impongono massimo rispetto, siano essi espressi con segni fisici di fatica, con assenza di contatto del paziente o con comparsa di agitazione-irrequietezza.
Occorre inoltre considerare che in un gran numero di pazienti in SV non è possibile escludere a priori, in base alla sede della lesione cerebrale, la possibilità che coesista un disturbo della competenza a comunicare attraverso la parola (afasia). Qualora ci sia afasia con compromissione anche della capacità di comprendere il linguaggio verbale, un contatto solo verbale, come il messaggio affidato alla cassetta registrata, potrebbe non risultare neanche comprensibile al nostro paziente.
Esiste infine la possibilità che i nostri pazienti traumatizzati presentino un disturbo importante della loro memoria “episodica” cioè degli eventi capitati durante la loro vita. Questo disturbo risulta particolarmente grave in molti dei pazienti subito dopo la loro ripresa di contatto con l’ambiente, per poi ridursi almeno in parte, e interessa in modo più massiccio gli eventi più recenti e vicini al trauma, rispetto ai fatti remoti della loro infanzia e prima giovinezza. In queste condizioni la voce registrata della piccola figlia nata da poco più di un anno potrebbe non evocare nessuno ricordo significativo.
Date queste premesse appare evidente che lo strumento “ascolto di cassetta pre-registrata” è nella migliore delle ipotesi grossolano ed inutile e nella peggiore anche parzialmente dannoso. Al contrario il familiare deve essere inserito nel team riabilitativo e partecipare in modo organico al programma strutturato di rinforzo della relazione con il paziente; la valenza affettiva ed emotiva del suo contatto, la sua antica conoscenza con il paziente possono costituire, se ben gestite dal coordinatore del team, una fonte terapeutica preziosa.

D. Un mio parente, dopo una grave emorragia al cervello, ha avuto paralisi al braccio e alla gamba destra. Dopo due mesi circa da quando si è ammalato, sta diventando sempre più rigido e spastico: vuol dire che non fa abbastanza fisioterapia o che ne fa una sbagliata? Può peggiorare?

R. Il quadro clinico che lei ci descrive fa, purtroppo, parte di quelli che noi tecnici chiamiamo “danni secondari”, cioè possibili conseguenze negative che possono emergere a relativa distanza dalla malattia acuta, come sua diretta conseguenza. Spesso, dopo una plegia di origine centrale, il quadro clinico iniziale di paralisi “flaccida” viene sostituito da una parziale ripresa di capacità di movimento volontario ma anche da un incremento del tono muscolare, che interessa solo alcuni muscoli a dispetto degli altri, e finisce con l’interferire pesantemente con il processo di recupero funzionale: ad esempio la mano può presentare una esagerata prevalenza dei muscoli che flettono le dita, rispetto a quello che le estendono, fino a rimanere bloccata e chiusa” a pugno”.
In questo contesto la fisioterapia ha un ruolo fondamentale nel contrastare il rischio che posture patologiche diventino irreversibili per retrazioni tendinee o blocchi articolari, ma non può sostanzialmente impedire che il fenomeno patologico della spasticità si palesi, proprio perché quest’ultimo è espressione diretta del quadro della lesione cerebrale.
Occorre infine ricordare che un moderno approccio riabilitativo alla gestione clinica della spasticità mette a disposizione del paziente non solo le opportune e fondamentali tecniche fisioterapiche, ma anche ortesi su misura ( nel caso della mano che si chiude troppo, ad es, ortesi polso-mano che mantengono il polso allineato con la mano e le dita estese), farmaci miorilassanti usati per via generale, farmaci in grado di bloccare in parte l’attività muscolare patologica (blocchi neuromuscolari con tossina botulinica), miorilassanti somministrati in modalità particolare, per mezzo di pompa intratecale collocata a livello midollare.
E’ compito del team riabilitativo individuare la terapia più opportuna per la fase evolutiva e gli specifici problemi posti da ogni paziente.

R. Il pericolo più grave di non corretta deglutizione, è rappresentato dal passaggio di particelle alimentari solide e/o liquide nelle vie respiratorie ( fenomeno definito aspirazione) possibile causa di infezioni toraciche e polmonari.
Le cause della disfagia sono molteplici, è necessario pertanto che la valutazione della deglutizione sia fatta dal medico specialista.

R. Se una persona ha subito una lesione cerebrale o del midollo spinale, che abbia interessato le aree deputate al controllo motorio, si crea un danno "piramidale" o anche detto "del primo motoneurone".
Questo implica la perdita di forza e di destrezza motoria della parte interessata, ma anche l'aumento dell'ipertono stastico ( resistenza alla mobilizzazione passiva offerta dai muscoli) e dei riflessi ( ad esempio del riflesso in triplice flessione dell'arto inferiore) In parole più semplici: è probabile che toccando il piede si induca una risposta riflessa ( non un movimento volontario) di pigamento in su del piede (dorsiflessione), di piegamento del ginocchio ( flessione del ginocchio ) e dell'anca.
Questi riflessi possono verificarsi anche in caso di perdita completa della forza, come per esempio nella plegia di un arto inferiore.

R. L'obbiettivo principale, nel coma non più in fase iniziale di emergenza-urgenza, è il risveglio: ridurre la durata, infatti, migliora l'outcome clinico.
A tal fine la sollecitazione di uno o più dei cinque sensi, quindi anche di quella acustica "parlando" al paziente in coma potrebbe rivelarsi utile, pur permanendo in questo campo, ancora oggi, più dubbi che certezze.

R: L'evoluzione e la prognosi di un paziente sono legate a diversi fattori.
Importante l'eziologia, la causa della grave cerebro-lesione acquisita che può essere di natura traumatica, vascolare, ipossica.
Più a lungo continua la perdita di coscienza, lo stato e la prodondità del coma, meno probabile è il recupero di una autonomia funzionale.
Questo però non è vero per i comi post-traumatici dove una ripresa soddisfacente è possibile anche dopo parecchi mesi, fino ad un anno ( 3-6 mesi negli anossici e vascolari).
Sicuramente la gravità del danno anatomo-funzionale dell'encefalo condiziona l'evoluzione e la reversibilità del coma. Anche l'età è un fattore molto importante.
Da non dimenticare, inoltre, le varie complicanze di natura infettiva e non che possono insorgere durante il decorso clinico e che possono insorgere durante il decorso clinico e che possono ritardare ulteriormente la guarigione o la stabilizzazione dei parametri vitali del paziente.
Da dati di letteratura possiamo concludere che il trauma cranico ha una evoluzione più favorevole ma dobbiamo anche ricordare che per la complessità delle variabili in goco ogni paziente va comunque considerato nella sua unicità di persona.

D. Ho letto e sentito che in alcuni Centri di riabilitazione si praticano terapie particolari, non proposte in modo costante in tutti gli ospedali (arte-terapia, musico-terapia, ippo-terapia, attività sportive adattate per disabili). Potrebbe dirmi se e quando sono utili, o indispensabili, per un paziente come mio figlio, che ha avuto, a 19 anni, un trauma cranico grave?

R. Le tecniche riabilitative tradizionali sono volte a prevenire i danni secondari all’inattività, a promuovere il contenimento delle menomazioni conseguenti al danno cerebrale e a recuperare il miglior grado di autonomia funzionale compatibile con la gravità della malattia iniziale.
Queste procedure riabilitative sono fondamentali e costituiscono lo strumento terapeutico prevalente nella fase post-acuta precoce di riabilitazione intensiva, che segue immediatamente l’esordio del trauma cranico e delle malattie cerebrali.
Quando si entra in una fase post-acuta tardiva è esperienza comune dei pazienti e dei loro familiari, come anche dei riabilitatori, che i primi obiettivi (stabilizzazione delle condizioni generali, recupero delle autonomie di base e della capacità di autogestione per le attività più semplici della vita quotidiana) non sempre sono pienamente raggiunti, ma quand’anche si sia ottenuto il risultato atteso restano aperti e urgenti molti altri bisogni più complessi, in cui sono prevalentemente chiamate in gioco competenze cognitive, comportamentali,capacità di comportamenti socialmente adeguati, capacità di progettare e svolgere in autonomia attività elaborate.
Le terapie a cui lei fa cenno sono state introdotte, spesso in via sperimentale, con il doppio obiettivo:
a) di offrire nuove esperienze motorie e psicomotorie che fossero più accettate dai Pazienti più gravi per la loro valenza maggiormente ludica, al fine di aumentare la loro tolleranza e partecipazione a trattamenti riabilitativi spesso lunghi e avari di risultati (come ad esempio l’ippoterapia);
b) di porre il paziente in setting riabilitativi più complessi ed ecologici (ovvero vicini alla vita concreta) in cui, tra l’altro, sono chiamati a svolgere attività in gruppo, in situazioni cioè in cui devono saper gestire relazioni tra pari e con figure esterne. Esistono molte esperienze in questo settore, prevalentemente nel mondo anglosassone e riteniamo che siano un’ulteriore strumento terapeutico impiegabile per facilitare la piena restituzione dei nostri pazienti al loro ambiente naturale di vita.

R. La terapia in acqua, ha una lunga tradizione e può essere annoverata a pieno titolo tra le tecniche di riabilitazione utilizzabili con vantaggio anche nella riabilitazione delle paralisi di origine cerebrale.
I suoi principali vantaggi consistono nella possibilità di fare esperienza di movimento in un ambiente in cui la presenza dell’acqua rende più agevole il controllo contro gravità dell’asse corporeo e degli arti. Per alcuni pazienti è così possibile iniziare ad esercitare in piscina la stazione eretta e il cammino, piuttosto che movimenti degli arti che non sono ancora possibili in palestra.
Un altro effetto positivo è di tipo miorilassante, dato dall’immersione nell’acqua della piscina terapeutica che risulta di solito più calda di quelle dedicate al grande pubblico.
Occorre però ricordare che vi sono alcune controindicazioni assolute alla idroterapia (ad esempio presenza da ampie piaghe da decubito, gessi e fissatori esterni per fratture, diarrea, frequenti crisi epilettiche non controllate da terapia).
Occorre poi valutare con attenzione il grado di motivazione del paziente e rinunciare a questa opzione terapeutica nel caso in cui si riscontri una netta avversione/paura ad affrontare esperienze in piscina.
Tornando alla sua domanda iniziale riassumerei dicendo che l’idroterapia è potenzialmente utile per un paziente emiplegico o comuque per disturbo del movimento da lesione cerebrale, ma, qualora l’ambiente di cura in cui si trova il paziente non ne sia provvisto, sono fiducioso che il progetto riabilitativo possa essere correttamente sviluppato utilizzando gli strumenti fisioterapeutici tradizionali, in palestra.

R. La cannula tracheale, per quanto costituisca una costante causa di angoscia e preoccupazione nei familiari, costituisce un sicuro ausilio che semplifica la corretta gestione dei pazienti che non sono in grado di eliminare volontariamente il catarro con il meccanismo volontario della tosse e che non hanno il completo controllo della deglutizione, per cui rischiano di inalare nelle vie aeree il cibo o la saliva che invece dovrebbe indirizzarsi verso l’esofago e lo stomaco.
Per questo motivo, malgrado la giustificata resistenza psicologica ad accettare questo presidio, noi riteniamo che proprio il progetto di riportare a casa un paziente giustifichi la decisione di non rimuovere la cannula tracheale di un paziente non in grado di autogestire le proprie secrezioni bronchiali e che non abbia recuperato il meccanismo della deglutizione.
Ovviamente è indispensabile che il familiare venga istruito da parte del reparto di riabilitazione alla corretta gestione della cannula tracheale e alle manovre di bronco-aspirazione, con una procedura di affiancamento lo aiuti a superara le difficoltà psicologiche e lo renda affidabile nel applicare in sicurezza questa attività di assistenza al proprio congiunto.

D. Ci stiamo organizzando per accogliere a casa nostro figlio, che è ancora in stato vegetativo dopo un anno dall’incidente che ha avuto. Può servire avere in casa un saturimetro come quelli che vedo usare in reparto e che sento suonare anche a lui qualche volta?

R. Penso che dobbiate discutere anche su questo argomento con il medico e con il team che sta seguendo attualmente vostro figlio nel percorso di preparazione alla dimissione, visto che solo loro conoscono bene le sue condizioni generali e il grado di autonomia della funzione respiratoria.
Nell’esperienza del nostro centro abbiamo verificato l’utilità di avere anche al domicilio un saturimetro (strumento che misura la” quantità “di ossigeno nel sangue per mezzo di un rilevatore messo “a pinza” su un dito) in tutti i casi in cui il paziente va a casa con cannula tracheale e quando presenta episodi, anche molto occasionali, di desaturazione (ovvero di insufficiente ossigenazione del sangue) per ridotta capacità di espellere le secrezioni bronchiali con la tosse o perché può inalare del cibo.
In questa situazione l’uso del saturimetro soprattutto nelle ore notturne, può consentire ai familiari un riposo più “tranquillo”, sapendo che possono intervenire tempestivamente al letto del paziente solo in caso di necessità, resa evidente dall’allarme acustico del saturimetro.
Se si dotano anche di un semplice avvisatore acustico a distanza, come quelli in commercio per segnalare il pianto dei bimbi piccoli, possono anche svincolarsi dal bisogno di rimanere sempre a stretto contatto con il paziente.
Purtroppo questo tipo di strumenti medicali non sono prescrivibili tramite Servizio Sanitario Nazionale, ma il costo dei modelli più semplici (e utili) è relativamente contenuto.

R. La tecnica della stimolazione cerebrale tra origine dal lavoro di ricercatori italiani, Moruzzi e Magun che, intorno alla metà del secolo scorso, studiarono l’effetto della stimolazione elettrica di strutture cerebrali profonde, individuando una’area, detta sostanza reticolare attivatrice, il cui ruolo è quello di attivare le strutture cerebrali superiori, facilitando lo stato di veglia.
In anni più recenti vaei autori hanno cercato di usare la stessa tecnica con l’obiettivo di favorire il recupero della coscienza in pazienti in stato vegetativo persistente.
La tecnica, che consiste nell’impiantare elettrodi in grado di stimolare cronicamente le strutture profonde della sostanza reticolare mesencefalica e dei nuclei talamici aspecifici è però ancora da considerare come sperimentale e non ha purtroppo fornito, ad oggi, risultati significativi che ne incoraggino l’uso clinico.

R. La procedura di rimuovere un tassello della teca cranica dopo trauma cranico, costituisce una delle possibili armi terapeutiche in mano al neurochirurgo per prevenire/contrastare i possibili danni che conseguono all’aumento patologico della pressione che si crea all’interno della scatola cranica quando vi sia una emorragia e/o edema cerebrale diffuso.
E’ stato però recentemente dimostrato che le condizioni neurologiche di un paziente potrebbero migliorare se viene realizzato l’intervento di cranioplastica, quando cioè viene ricostituita la condizione naturale, fisiologica in modo che il cervello si trovi all’interno di un contenitore chiuso (la scatola cranica), riposizionando il tassello osseo originario o uno di materiale sintetico : si ottiene così un doppio vantaggio: si evita il rischio di nuovo danno cerebrale per trauma diretto sulla parte non protetta da osso ma anche si migliora la circolazione del sangue e il funzionamento della parte di cervello vicina alla breccia ossea.
L’intervento di cranioplastica dovrebbe essere fatto non appena ci sia certezza della stabilizzazione del danno cerebrale, con risoluzione dell’edema e dei versamenti emorragici.
Occorre inoltre che le condizioni generali del paziente siano tali da consentire una nuova anestesia e un intervento neurochirurgico, per quanto relativamente semplice; in particolare occorre che il paziente sia libero da complicanze infettive.
Di solito queste condizioni si verificano solo dopo alcuni mesi dal trauma.

D. A mia moglie, 33 anni, dopo un aneurisma all’ arteria media celebrale dx ed un ictus apparso dopo 48 ore che ha determinato un’ asportazione da parte dei medici rianimatori di parte della calotta, è stata riposizionata una protesi definitiva con una cranio plastica. Attualmente, mia moglie è presente al 100% in tutto tranne nel movimento del braccio six ed il recupero della gamba è ad un buon 60%. Secondo lei c'è la possibilità di recupero facendo solo un programma di riabilitazione di un’ ora al giorno o ha bisogno di altro?

R.In linea di massima, forse sua moglie potrebbe trarre beneficio da un programma più intenso, ma purtroppo non è sempre così e non si deve cadere nel tranello di pensare che "più fisioterapia = maggiore e più rapido recupero”.
Il fatto che il recupero funzionale dell’arto superiore della signora sia minore di quello dell’arto inferiore è purtroppo abbastanza frequente nei soggetti emiplegici, a prescindere dalla bontà del progetto riabilitativo messo in atto.
Per poter programmare il trattamento riabilitativo di una paziente come sua moglie in modo corretto si dovrebbe anche verificare la sua tenuta attentiva e, in molti casi, è raccomandabile suddividere la durata totale di “fisioterapia” quotidiana in più momenti intervallati da lunghe pause di riposo, per meglio sfruttare i periodi di maggior efficienza attentiva .
Occorrerebbe inoltre sapere se la signora non presenta anche disturbi spesso connessi a danno dell'emisfero di dx, quali una ridotta capacità di analisi della metà dello spazio extracorporeo di sin. (neglect o eminattenzione) che spesso condiziona negativamente il recupero funzionale, ma che può essere oggetto di un ulteriore e specifico programma riabilitativo, parallelo alla fisioterapia motoria.

D. Mia madre, che ha 65 anni ed è stata colpita da grave emiplegia dx con un periodo iniziale in cui è stata in coma, è arrivata al reparto di riabilitazione con una vasta piaga nella regione dei glutei. I medici e gli infermieri mi dicono che la lesione sta lentamente migliorando, anche perché la mamma sta bene in salute e incomincia a stare in piedi in palestra. Oggi mi è però stato consigliato un intervento di chirurgia plastica. E’ utile e necessario questo intervento o si potrebbe evitare?

Il bilancio dei pro e dei contro di ogni terapia deve ovviamente essere fatto da chi ha in cura un paziente e dai suoi familiari.
In linea teorica il trattamento di chirurgia plastica ripartivo di una lesione da decubito trova indicazione quando le dimensioni e la profondità della lesione fanno prevedere tempi di guarigione di molti mesi, periodo in cui la paziente resta a rischio di infezioni locali, è limitata nelle posizioni che può mantenere nel letto o in carrozzina, necessita di medicazioni lunghe e costose che riducono il tempo disponibile per altre attività riabilitative o ricreative.
Occorre infine ricordare che il tessuto fibroso-cicatriziale che caratterizza il processo di riparazione spontanea, è molto più a rischio di nuove lesioni da decubito, di quanto non sia il lembo “muscolare-cutaneo, con relativa vascolarizzazione e innervazione” che il chirurgo plastico fa ruotare da una area vicina sana e che posiziona a coprire l’area lesa.

D. Egregio dottore, le scrivo per chiederle un parere circa una situazione complicata: mia madre all’inizio del 2009,all’età di 65 anni, ha subito un grave trauma cranico.
Dopo una fase molto lunga di cura, i medici dicono che non è più indicato rimanere ulteriormente in reparto di riabilitazione intensiva, essendo mia madre ancora in stato vegetativo.
I miei dubbi nascono dal fatto che ho l’impressione che quando le parlo lei possa cogliere la mia presenza.
Se però non posso oppormi alla decisione dei medici, vorrei portare la mamma a casa, per dedicarmi alla sua cura pagando del personale di assistenza.
Ma a questo punto i medici dell’ospedale e i servizi del territorio mi dicono che sarebbe più adeguato un ricovero in una struttura residenziale o in lungodegenza. Può aiutarmi a capire cosa devo fare?

R. Ho letto con attenzione la breve sintesi della storia clinica di sua mamma.
Ho l’impressione che la sua domanda potrebbein realtà essere scomposta in due quesiti separati.
Il primo riguarda il suo dubbio circa l’appropriatezza della decisionedi ritenere chiuso l’iter di riabilitazione intensiva: a questo proposito devo dirle di condividere nella sostanza l’analisi fatta dai medici curanti.
In considerazione del tempo trascorso dal trauma (circa 15 mesi), dell’età della paziente e della stabilizzazione del quadro neurologico in una condizione di “Stato Vegetativo” o al massimo di “Stato di Minima Coscienza” con doppia emiplegia massiva, le probabilità che la signora possa avere un recupero tardivo della coscienza eun recupero funzionale è assolutamente bassa e, in ogni caso, non credo influenzabile da ulteriore riabilitazione intensiva.
Confermo quindi la correttezza della decisione di avviare un percorso di dimissione.
Il secondo quesito appare invecemolto più complesso e le anticipo che non esiste forse una sola soluzione corretta, ma che si debba fare un tentativo dibilanciare i vantaggi e gli svantaggi delle due soluzioni (rientro a casa o ricovero in struttura protetta) per poi arrivaread una decisione operativa, da sottoporre a verifica sul campo.
A favore del reinserimento a domicilio metterei il forte e lodevole desiderio di prendersi cura direttamente di sua madre, l’assenza di barriere architettoniche, la disponibilità dirisorse economiche e di tempo, la possibilità di personalizzare la gestione della paziente in un ambiente organizzato a misura dei suoi bisogni.
Contro la soluzione domiciliare metterei il persistere di bisogni assistenziali elevati, a partiredalla gestione 24/24 ore dei vari presidi, quali la cannula tracheale e la PEG, ma anche l’incompleta stabilità delle condizioni generali con infezioni ricorrenti e conseguente necessità di supporto medico esperto.
Ulteriore elemento critico sembra essere la dichiarata difficoltà dei servizi di assistenza domiciliare integrata che non riescono a garantire la copertura completa rispetto ai bisogni della malata.
A ciò aggiungerei la considerazione che purtroppo la gravità neurologica della paziente non le consentirebbe di cogliere il piacere di essere tra le mura di casa.
La metto infine in guardia circa il rischio che un suo diretto, intenso e prolungato impegno nella gestione quotidiana della mamma potrebbe portare ad usura delle sue energie fisiche e psicologiche, riducendo proprio quella carica di affetto e quella capacità di relazione emozionale con la paziente a cui potrebbe dedicarsi pienamente se delegasse ai professionisti di una struttura protetta il carico della gestione complessiva.
Come anticipato noi tecnici possiamo supportare il processo decisionale ma non sostituirci ai familiari nella decisione finale, che resta nelle mani di chi esercita la patria potestà.

D. A mia zia è stata diagnosticata la presenza di aneurisma dell’arteria comunicante anteriore (angolo A1-A2 a destra).
Nei mesi scorsi è stata sottoposta ad un intervento di esclusione dell’aneurisma dal circolo mediante clipping al colletto.
Nel decorso post operatorio mia zia ha mostrato evidenti segni di menomazione cognitiva e comportamentale: non collaborante, agitata, ansiosa, confusa, disorientata.
Attualmente, è ricoverata presso un reparto di psichiatria, dato che a distanza di un mese dall’operazione presenta ancora le suddette disfunzioni.
Vorrei a riguardo sapere: se tali scompensi possano rientrare nella generalità di casi simili; se gli stessi possano, quindi, considerarsi temporanei e vi sia possibilità di recupero delle funzioni cognitivo comportamentali, mia zia non ha alcun deficit motorio; l’eventuale tempo necessario per un possibile recupero, anche parziale; infine, se necessita di una riabilitazione appropriata.

R. Il quadro clinico che mi ha descritto sembra molto coerente con la sede dell’aneurisma individuato ed escluso dal neurochirurgo: le aree cerebrali più anteriori, frontali, sono quelle maggiormente coinvolte nella corretta gestione del controllo comportamentale e delle condotte sociali.
La compromissione di queste strutture può quindi compromettere, in vario grado, la competenza cognitiva e comportamentale di un paziente, con disturbi globalmente definibili come “in eccesso” (agitazione, irrequietezza, aggressività, perdita di inibizione) piuttosto che “in difetto” (grave inerzia ed apatia, con perdita di qualunque iniziativa, quadri simildepressivi).
Spesso questi pazienti, come sembra sia il caso di sua zia, non presentano disturbi primitivi del movimento, perché la sede del danno cerebrale è più anteriore rispetto alle aree cerebrali responsabili del controllo motorio.
Rispetto alle possibilità e ai tempi di recupero, occorre ricordare che pur nella grande variabilità di ogni singolo caso, la valutazione delle possibilità di recupero deve poggiare sull’analisi di tante variabili, tra cui l’esatta entità (sede e dimensioni) del danno cerebrale, la presenza di emorragia cerebrale all’esordio, l’eventuale presenza di complicanze precoci, quali un vasospasmo dei vasi cerebrali vicini alla lesione, l’eventuale durata di un periodo iniziale di coma, l’età e lo stato di salute generale della paziente.
Sicuramente il fatto che siamo a circa due mesi dall’evento acuto, deve lasciare aperta la possibilità di un ulteriore recupero nei prossimi mesi.
Riguardo alla possibile indicazione a provvedimenti riabilitativi: sempre in linea generale ritengo che sia assolutamente utile prevedere un periodo di ricovero in ambiente riabilitativo specialistico per cercare di ottimizzare le probabilità di recupero funzionale della paziente, compatibilmente con la gravità del danno subito. Bisogna però ricordare che il percorso riabilitativo non si conclude mai con la fase di ricovero ospedaliero, questi pazienti riescono a volte a ritrovare una maggior adeguatezza comportamentale dopo il loro reinserimento nel normale ambiente di vita.

D. Per quanto riguarda la fisioterapia che tipi di metodi ci sono per stimolare i pazienti con calcificazione agli artisuperiori e gli arti inferiori? Attualmente mio padre ricoverato viene stimolato con la manipolazione da seduto incarrozzina e a letto. Secondo lei è sufficiente?

R. Le devo innanzitutto dire che occorrerebbe sapere qual è la causa e la gravità della malattia di base che ha provocato lecalcificazioni, da quanto tempo sono insorte, che dimensioni e caratterische hanno alle indagini radiologiche (Radiografie e TAC), quali limitazioni articolari strutturate hanno già provocato: dovremmo cioè avere una sintesi della storia clinicadel paziente.
In linea generale le posso dire che a seguito di una grave cerebrolesione acquisita, sia essa di natura traumatica o secondaria a malattia vascolare possono formarsi voluminose calcificazioni che si accrescono progressivamente e finiscono con bloccare le grandi articolazioni (anche spalle e ginocchia).
Non conosciamo ancora con certezza la causa di questa complicanza, ma sappiamo che la fase di formazione si accompagna a segni locali di infiammazione dell’area interessata, che si manifestano con “gonfiore” arrossamento della cute e dolore alla mobilizzazione del paziente.
Come avrà purtoppo potuto constatare il risultato finale di questo processo di formazione di materiale osseo in sede anomala può portare a conseguenze funzionali molto importanti, bloccando articolazioni in posizioni che impediscono ogni attività motoria utile e le stesse manovre di assistenza infermieristica al paziente.
Dovendo stabilire cosa fare per ogni paziente le premetto che non sono noti farmaci o cure fisiche e trattamenti riabilitativi in grado di rimuovere le calcificazioni e “sbloccare” le articolazioni una volta che si siano formate.
In base alla nostra esperienza clinica e ai pochi lavori scientifici sull’argomento è possibile usare farmaci antinfiammatori a dosaggio pieno quando le calcificazioni sono in fase di formazione; in questo periodo (che dura a volte vari mesi in fase precoce) deve essere posta molta attenzione alla fisioterapia: la mobilizzazione delle articolazioni interessate deve essere molto cauta per evitare di rinforzare il processo infiammatorio in atto e favorire quindi la crescita della calcificazione, ma nel contempo nel cercare di prevenire il blocco delle articolazioni in posizioni non funzionali (ad es. un ginocchio bloccato in flessione non permetterà più di esercitare la stazione eretta).
Quando la calcificazione sia stabilizzata (e il processo di infiammazione locale ampiamente risolto) si può discutere circa le terapie chirurgiche per rimuoverle.
Questa opzione viene di solito adottata dopo almeno un anno dall’esordio del trauma, per evitare che una eventuale ripresa del processo infiammatorio porti a riformazione della calcificazione stessa.
Si tratta di interventi impegnativi, da affidare a mani molto esperte, con attenta selezione dei casi da operare.
Occorre valutare da un lato quali vantaggi funzionali verrebbero al paziente da un intervento ben riuscito, dall’altro i rischi a cui andrebbe incontro, sia per complicanze generali, legate ad esempio all’anestesia per operazioni lunghe, sia per le caratteristiche della calcificazione stessa.